Quale educazione per il 2030?

Per molto tempo questo blog è rimasto silenzioso. Ho avuto molte cose da fare in analogico ed ho trascurato questa parte digitale.

Tra le altre cose, ho contribuito a far nascere la prima associazione nazionale per gli youth workers: NINFEA!

la nostra nuova associazione nazionale per gli Youth Workers!

E oltre a questo, ho avuto l’onore di partecipare all’European Youth Work Convention dove sono state messe le basi per le linee di priorità della European Youth Work Agenda per i prossimi cinque anni. Ma di tutto questo ne parlerò altre volte.

Questo breve post risponde invece alla domanda: quale scuola (e quale educazione) per il 2030?

Ci provo con un video di una esperienza molto bella che ho vissuto mesi fa dentro il grande fermento che la pandemia ha creato in alcuni settori per provare a vedere cosa sarà il futuro dopo questa crisi.

Sono stato contattato dall’ottimo Enrico Gentina, curatore dell’edizione di Tedx Torino in cui avevo parlato dell’importanza del viaggio che mi ha coinvolto in Re|Future|it, un “think tank proattivo, aperto, non ideologico, nato per aiutare il dibattito pubblico e i policy makers a rifocalizzarsi sulle idee e sui fatti.”

Il progetto ha previsto che dieci tavoli di lavoro lavorino su dieci tematiche grazie al contributo di dodici persone selezionate tra esperti e attuatori, rappresentanti del mondo aziendale pubblico e privato, e due curatori per ciascun tavolo, i quali ne hanno guidato e curato le attività.

Ogni tavolo di lavoro ha affrontato temi centrali rispetto alla propria tematica principale, cercando di mettere in luce idee innovative che possano far emergere soluzioni nuove ai singoli problemi affrontati.

Io ho partecipato al tavolo che si intitolava “Didattica Dinamica” e i miei compagni di strada come esperti erano molto interessanti, provenienti tutti dal mondo della scuola o dell’università. In questo senso, sì, ero l’unico che arriva dall’educazione non formale…

Ma ora vi lascio al video, buona visione!

Per chi volesse leggere le conclusioni di tutti i dieci tavoli, eccole!

Professione Youth Woker: luci e ombre del dibattito (1)

L’Animatore Socioeducativo nei Repertori Regionali 

 

Vorrei iniziare ringraziando youthworker.it per avermi concesso questo spazio, così da potervi raccontare quelli che sono i risultati del mio lavoro di tesi. Lo stesso vale per coloro che hanno risposto all’appello di “qualche post fa”, in cui chiedevo di contribuire alla ricerca rispondendo al questionario.

 

La tesi dal titolo “Youth Work e certificazione delle competenze. Riflessioni sulla realtà italiana” ha approfondito il tema del riconoscimento professionale degli youth workers, nel tentativo di mettere in luce i punti di forza e di debolezza del dibattito. Attraverso questo post e i seguenti, riassumerò quanto emerso.

 

Una prima parte di ricerca ha voluto indagare lo stato dell’arte dello Youth Work in Italia, anche attraverso l’analisi dei Repertori Regionali delle Figure Professionali e delle Qualificazioni. Questi strumenti –atti alla certificazione delle competenze- raccolgono e codificano l’insieme dei profili professionali, ordinandoli per aree o settori economico-professionali di riferimento. Lo scopo di questa fase era ricercare, ove presente, una figura riconducibile al profilo dello youth worker.

Ciò che emerge dall’analisi, in pillole:

  1. La figura di “animatore socioeducativo” o simile, è presente in 16 Repertori Regionali su 20 (tranne Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige – considerando le due Province Autonome). Questo è di per sé un dato positivo che indica un’attenzione dedicata all’individuazione delle competenze proprie.
  2. Vengono utilizzate diverse denominazioni: animatore professionale socioeducativo (1); tecnico dell’animazione socioeducativa (1); animatore sociale (7); animatore socioeducativo (4); tecnico delle attività di animazione sociale (1).
  3. L’area economico-professionale di riferimento vede prevalere il comparto socio-sanitario (9), seguito dal settore servizi alla persona inteso come educazione e formazione (4) e servizi socio assistenziali (3).
  4. Le referenziazioni (ovvero i codici che collegano il profilo descritto con quello di altri sistemi di classificazione) fanno emergere un collegamento con le attività di reinserimento e integrazione sociale (nel caso del sistema ISTAT). Tuttavia rimane netto il prevalere dell’area dei servizi di assistenza sociale, residenziale e non (codici ATECO).

 

Quali considerazioni?

Il processo di certificazione delle competenze attraverso lo strumento dei Repertori è sicuramente una delle vie possibili per pensare ad un riconoscimento formale degli youth workers. Tuttavia, ad oggi, non è presente nessun profilo in grado di rappresentare appieno quello che intendiamo – in questo senso – con animatore socioeducativo. Ciò che emerge è essenzialmente una figura rilegata al comparto socio-sanitario, che opera nell’area dello svantaggio e della marginalità e principalmente con anziani e disabili. L’educazione non formale, la cultura, il tempo libero, il protagonismo e il target giovanile sono elementi che non compaiono e che sollevano dubbi sull’adeguatezza dei profili ad oggi disponibili.

Nel prossimo post…

Le riflessioni e gli spunti ricavati dal questionario sullo Youth Work in Italia. Qual è l’opinione dei cosiddetti insiders?

Key competences nuove (anche) per lo youth work!

La Commissione Europea propone nuove Key competences da sviluppare durante tutta la vita.

Il 17 gennaio ha infatti pubblicato una proposta di adozione di raccomandazione al Consiglio Europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento durante tutto l’arco della vita.

Le Key competences sono una conoscenza già assodata, per chi lavora con i giovani soprattutto in ambito internazionale. Nate nel 2006, hanno avuto il compito fondamentale di indicare, seppur in modo molto generale, che:

  1. è necessario prendere coscienza che lo studio in fase iniziale della vita non è sufficiente. È necessario invece aggiornarsi ed imparare durante tutta la vita lavorativa e oltre, tenendo conto dei cambiamenti rapidi a cui siamo sottoposti.
  2. esistono 8 ambiti di apprendimento che, attraverso modalità e contesti diversi (formale, non formale ed informale), è necessario coltivare.

Il cambiamento però era nell’aria. Gli ultimi dati OECD PISA mostrano che uno ogni cinque studenti nella UE ha un livello insufficiente di competenza in lettura, matematica e scienze. Molti giovani non hanno competenze digitali appropriate. Tra gli adulti va ancora peggio: i dati raccolti nel 2012 mostrano che gli italiani si collocano in maggioranza al Livello 2 sia nella literacy (42,3%) che nella numeracy (39,0%), il Livello 3 o superiore è raggiunto dal 29,8% della popolazione in literacy e dal 28,9% in numeracy, mentre i più bassi livelli di performance (Livello 1 o inferiore) vengono raggiunti dal 27,9% della popolazione in literacy e dal 31,9% in numeracy.

Inoltre, sappiamo che le key competences richieste dal contesto in cui si vive e si opera sono continuamente cambianti.

Per questo motivo si è giunti, a più di dieci anni dalla prima versione, ad un rinnovamento delle key competence.

 

Cosa è cambiato nelle key competences

Le precedenti key competences erano:

  1. Communication in the mother tongue;
  2. Communication in foreign languages;
  3. Mathematical competence and basic competences in science and technology;
  4. Digital competence;
  5. Learning to learn;
  6. Social and civic competences;
  7. Sense of initiative and entrepreneurship
  8. Cultural awareness and expression.

Come si può vedere, i titoli delle aree di competenza sono rimaste simili, anche se con alcuni cambiamenti da notare.

In base ai principali risultati del processo di consultazione, i lavori futuri sul concetto di key competences per l’apprendimento permanente si concentrano sui seguenti elementi:

  1. supportare gli studenti di tutte le età e in tutti i settori dell’istruzione e della formazione, incluso l‘apprendimento non formale e informale, per sviluppare meglio le competenze chiave per l’apprendimento permanente;
  2. aggiornare il quadro di riferimento alle esigenze attuali e future per garantire che le persone possano sviluppare le competenze di cui hanno bisogno;
  3. elaborare misure per promuovere l’educazione orientata alle competenze, la formazione e l’apprendimento nella prospettiva dell’apprendimento permanente, segnatamente mediante la creazione di ambienti di apprendimento idonei, il sostegno per gli insegnanti e altro personale educativo e la valutazione e convalida dello sviluppo delle competenze.

In particolare…

Innanzitutto, un buon livello di literacy (capacità di comprendere, utilizzare e interpretare documenti scritti per svolgere un ruolo attivo nella società attuale) è riconosciuto come fondamentale per le altre competenze, e deve essere costantemente migliorato. I dati sopra descritti della rilevazione PIAAC ci dice quanto sia urgente in Italia! Questa ha preso il posto della “communication in mother tongue” che sembrava troppo ambigua (a quale lingua si riferisce? quella che parlo a casa o quella che imparo a scuola?)

Parlare più lingue (il mio motto è “ogni europeo parli almeno quattro lingue del continente”) è una esigenza importante sia per la mobilità interna all’Unione sia per poter accedere a contenuti formativi ed informativi maggiori e di qualità.

La competenza “Mathematical competence and basic competences in science and technology ” mantiene la sua grande importanza soprattutto come forma di approccio ai problemi ed alla ricerca di soluzioni, ma il titolo è stato allineato a quello più comune di “science technology, engineering and mathematical competences” che rimanda all’acronimo STEM.

Le competenze digitali vengono arricchite dagli elementi presentati nel Digital competence framework e vengono incluse la robotica e l’intelligenza artificiale. Ovviamente un peso importante viene dato alla media literacy ed al pensiero critico connesso all’uso delle tecnologie digitali.

Inoltre…

Quelle che in altri contesti sono chiamate soft skills o competenze trasversali vengono qui invece accorpate nel nuovo “Personal, social and learning competences” (spacchettato da learning to learn e social and civic competences) che possono rispondere ai crescenti bisogni delle persone di affrontare l’incertezza e il cambiamento, rimanere resilienti, svilupparsi personalmente e costruire relazioni interpersonali di successo. Includono abilità quali il pensiero critico, il lavoro di gruppo, le competenze interculturali ed il problem solving.

Le “civic competences” vengono rafforzate, forse anche a causa della disaffezione generale al bene comune che si sta osservando ed alla nascita di forme di populismo, razzismo e di spinte nazionaliste. Per questo le competenze civiche devono consentire alle persone di agire come cittadini responsabili e attivi in grado di contribuire a società pacifiche, tolleranti, inclusive e sicure. In questo contesto, l’alfabetizzazione mediatica e le abilità interculturali sono ulteriormente rafforzate.

Le “Sense of initiative and entrepreneurship competences” sono ridefinite in base anche al lavoro fatto dal JRC Entrepreneurship Competence Framework .

Infine,  le “Cultural awareness and expression.” vengono riviste per tenere conto di una più ampia gamma di forme contemporanee di espressione culturale e anche per descrivere più chiaramente come questa competenza sia un elemento cruciale nella comprensione, nello sviluppo e nell’espressione di idee e nel ruolo o ruolo nella società.

Cosa cambia per noi youth workers?

Io credo che fondamentalmente questa rivisitazione ci debba far riprendere in mano il perché lavorare sul tema delle competenze e il come farlo in coerenza con i principi dello Youth Work e delle pratiche dell’educazione non formale.

Personalmente credo che lo scopo, oggi, del nostro lavorare con i giovani sia quello di aiutarli ad ampliare la loro libertà, nell’ottica di Amartya Sen.

A. Sen (in:Sergio Filippo Magni,Capacità, libertà e diritti: Amartya Sen e Martha Nussbaum, doi: 10.1416/10084) ci dice che la capacità di una persona è la sua «libertà sostanziale»: «dall’insieme delle capacità di una persona si riflette la sua libertà di condurre differenti tipi di vita» .

Noi possiamo concepire la  libertà «in senso negativo», come «libertà da», la quale «si concentra precisamente sull’assenza di una classe di vincoli che una persona può esercitare su di un’altra, o che lo Stato può imporre sugli individui».

Oppure la possiamo immaginare «in senso positivo», come «libertà di», la quale «si concentra su ciò che una persona può scegliere di fare o conseguire, piuttosto che sull’assenza di ogni particolare tipo di restrizione che la previene dal fare una cosa o un’altra»

Libertà positiva

Sen tiene poi a distinguere fra almeno due modi di concepire la libertà positiva: il primo la intende come possesso di merci o di beni. Si è in questo senso liberi, quando si è in possesso dei mezzi necessari per fare le cose che si ritengono degne di essere perseguite.

L’altro è inteso come la capacità effettiva della persona di fare le cose che ritiene di valore. Si è in questo senso liberi di fare qualcosa, quando si ha la capacità di farla .
I diritti stessi vengono caratterizzati come una relazione fra un individuo e una capacità, piuttosto che come una relazione fra due parti, fra due o più individui: così il diritto al movimento viene inteso, dice Sen, come «la capacità della persona i di muoversi senza danno»

Lo youth worker, per me, trova il senso del lavorare con le key competences a partire dalle capabilities che permettono alle persone, effettivamente, di esercitare la propria libertà.

Che ne pensate? come lavorate voi, nel concreto, con le key competences?

 

 

Per lavorare come Youth Worker devo essere laureato in Scienze dell’Educazione?

Lo Youth Worker deve essere laureato in Scienze dell’Educazione?

scienze dell'educazione, youth worker

Che formazione ha chi lavora oggi con i giovani, visto che da noi non c’è un sistema come quello finlandese che ho raccontato qui?

se guardo dentro la mia organizzazione, posso dire: diplomi di scuola media superiore, qualifiche regionali di educatore o animatore professionale, lauree in scienze dell’educazione, psicologia, filosofia, lettere, lingue, servizi sociali…

Tanta roba…

Bè, tutto questo probabilmente sta per cambiare, in maniera drastica.

Con un emendamento alla Legge di Stabilità è stata approvata la cosiddetta “Legge Iori” (l.205/2017 commi 594-600), dal nome della professoressa Vanna Iori, prima firmataria e appassionata animatrice di questa legge.

In cosa consiste?

Innanzitutto definisce gli ambiti in cui operano l’educatore professionale socio-pedagogico ed il pedagogista: educativo, formativo e pedagogico, “in rapporto a qualsiasi attività svolta in modo formale, non formale ed informale, nelle varie fasi della vita”.

Qui il riferimento alla Strategia di Lisbona è evidente (oltre che citata nell’articolo): stiamo superando gli steccati che dividono il mondo della scuola, del lavoro e del tempo libero identificando l’educatore come il professionista in grado di lavorarci.

Gli ambiti, all’interno dei presidi e servizi socio-educativi e socio-assistenziali,  sono così dettagliati:

  • educativo e formativo
  • scolastico
  • socio assistenziale (per gli aspetti socio-educativi)
  • della genitorialità e della famiglia
  • culturale
  • giudiziario
  • ambientale
  • sportivo e motorio
  • dell’integrazione e cooperazione internazionale.

Come si ottengono le qualifiche abilitanti di educatore e pedagogista?

Da oggi in poi con le lauree, in particolare modo con la laurea in Scienze dell’Educazione (L19) per l’educatore professionale socio-pedagogico e con la laurea magistrale di classe LM-50, LM-57, LM-85, LM 93 (che sono tutte lauree di ambito pedagogico).

Ovviamente si crea il problema di cosa succede con chi sta già lavorando e non ha la qualifica richiesta. Teniamo presente che finora il lavoro educativo è stato normato soprattutto dalle regioni e che quindi le qualifiche di riferimento sono spesso quelle dentro gli standard formativi regionali. In Piemonte, per esempio, abbiamo la figura dell’animatore socio-educativo, dell’educatore professionale, dell’educatore alla prima infanzia, solo per nominare quelli più importanti. Cosa succederà con tutti questi professionisti che stanno già lavorando?

Nel frattempo…

La legge prevede, in via transitoria, che si acquisisca la qualifica di educatore professionale socio-pedagogico:

Caso 1 – mediante superamento di un corso universitario per complessivi 60 cfu (un anno di costo) organizzati dai dipartimenti e facoltà di scienze dell’educazione e della formazione per chi al momento di entrata in vigore della legge si trovi nelle seguenti condizioni:

a) inquadramento nei ruoli delle amministrazioni pubbliche a seguito del superamento di un pubblico concorso relativo al profilo di educatore;

b) svolgimento dell’attivita’ di educatore per non meno di tre anni, anche non continuativi, da dimostrare mediante dichiarazione del datore di lavoro ovvero autocertificazione dell’interessato ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445;

c) diploma rilasciato entro l’anno scolastico 2001/2002 da un istituto magistrale o da una scuola magistrale.

Caso 2 – Acquisiscono la qualifica di educatore professionale socio-pedagogico coloro che, alla data di entrata in vigore della presente legge, sono titolari di contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ambiti professionali propri dell’educatore, a condizione che, alla medesima data, abbiano eta’ superiore a cinquanta anni e almeno dieci anni di servizio, ovvero abbiano almeno venti anni di servizio.

Quindi: se hai più di vent’anni di servizio come educatore (o dieci anni se ultracinquantenni) acquisisci la qualifica automaticamente. Se ne hai meno, ma più di tre anni di servizio, puoi partecipare (entro tre anni dall’entrata in vigore della legge) al corso universitario da 60 cfu. ATTENZIONE: qui si parla di qualifica, NON di laurea. Questi percorsi, alternativi alla laurea, servono per poter lavorare con il titolo corretto. Non danno alcun titolo valido a livello accademico (ossia: non si possono fare i master universitari, non si può accedere alle lauree magistrali…)

Per chi invece non si trova in questa condizione, ma ha svolto l’attivita’ di educatore per un periodo minimo di dodici mesi, anche non continuativi, documentata può continuare ad esercitare detta attivita’ e non possono essere licenziati o demansionati per questo motivo.

Quindi?

Vedo in questa legge alcuni punti positivi ed alcuni elementi da cambiare/migliorare.

E’ positivo che finalmente si dia valore ad un lavoro che finora è stato lasciato in mano a mille modalità di formazione e altrettante “svalutazioni”. Mi ha sempre colpito che in Spagna chiunque voglia fare attività con i minori (nei centri estivi parrocchiali, ad esempio, a titolo volontario) sia obbligato ad avere il patentino di monitore, che viene rilasciato dopo un corso teorico/pratico di 200 ore. L’idea di fondo è che non si lasciano dei minori in mano a chiunque. Anche se lo fa come volontariato.

In Italia invece ho sperimentato in questi anni una serie di contraddizioni molto forti: sempre per stare in campo del tempo libero estivo per i minori: per poter fare l’animatore nei centri estivi, in Piemonte è sufficiente un diploma di scuola media superiore. Anche come Perito Meccanico!

La laurea non sana tutte le questioni di competenze, ma almeno dice che non ci si può improvvisare educatore.

Trovo sensato, anche se questo mi attirerà forse la rabbia dei miei amici psicologi e assistenti sociali, che ciò che dà la qualifica sia solo la laurea in scienze dell’educazione. Che ciascuno studi ciò che poi andrà a fare… Oltretutto stiamo parlando di professionisti ben protetti da Ordini professionali di legge!

Mi pare invece poco corretto equiparare chi ha tre anni di esperienza e titoli (il corso per educatori regionale e quello per animatori durava tre anni e 800 ore di frequenza all’anno obbligatorie) con chi invece ha solo l’esperienza. Non è la stessa cosa, deve essere in qualche modo sancita una diversità.

Infine: capisco l’esigenza di non penalizzare persone che stanno lavorando da almeno 12 mesi in ambito educativo senza titolo, per cui possono continuare e non possono essere licenziate per questo. Ma se diciamo che per questo lavoro è necessario studiare e qualificarsi, allora bisogna andare fino in fondo. Possiamo obbligare le università a pensare percorsi formativi facilitanti chi sta lavorando, possiamo pensare a dei congedi specifici e più capienti per poter studiare. Ma quella è la strada. Altrimenti non usciremo mai dall’ambiguità.

Cosa ci dice tutto questo del nostro Youth Worker?

Per come leggo la legge Iori, da domani lo Youth Worker dovrà avere la qualifica di educatore professionale socio-educativo.

E’ sufficiente? secondo me, no. Il corso di laurea è molto generale, è pensato per chi andrà a lavorare in tanti contesti diversi.

Io credo che la via più seria sia quella di prevedere, oltre alla laurea, una sorta di specializzazione, una formazione teorico/pratica molto specifica che permetta a chi vuole lavorare in questo ambito l’acquisizione delle competenze necessarie per fare la differenza.

Perché questo è ciò che chiediamo allo Youth Worker, ovunque esso agisca: di fare la differenza!

Cosa ne pensate?

 

 

Domani vado a lavorare all’estero ma non so come dire cosa so fare!

lavorare all’estero grazie ad ESCO

E se domani decidessi di andare a vivere o lavorare all’estero, in un altro paese dell’Unione, come potrei spiegare a miei potenziali datori di lavoro cosa so fare, cosa sono, che qualifiche ho?

Per questa cosa è nato ESCO!

Proviamo a vedere meglio di cosa si tratta.

Il Sistema Nazionale di Certificazione delle competenze

La prendo un po’ lunga, ma credo serva per comprendere il contesto.

Da qualche anno mi occupo di riconoscimento e validazione delle competenze acquisite in ambito non formale ed informale. Si tratta, in sintesi, di aiutare le persone a capire quali sono le competenze che hanno sviluppato lavorando, facendo volontariato, dentro lo youth work…

Ma a qual fine?

Non tutti lo sanno, ma la Legge Fornero (sì, quella degli esodati) ha previsto la nascita del Sistema Nazionale di Certificazione delle competenze. Il Sistema prevede che sia possibile farsi riconoscere le competenze per acquisire possibili qualifiche professionali. Per far questo le qualifiche sono state mappate in competenze e sono state condivise tra le Regioni, che sono in realtà le istituzioni che finora hanno gestito la formazione professionale e i profili di competenze per le qualifiche.

Quindi, se io oggi dovessi cambiare lavoro e non avessi la qualifica necessaria, ma avessi sviluppato nel corso degli anni le competenze richieste dal profilo professionale potendolo dimostrare (con quelle che sono chiamate “evidenze”) allora potrei farmele riconoscere “fino a qualifica”.

E quindi l’ESCO?

ESCO è la classificazione multilingue delle qualifiche, competenze, abilità e professioni in Europa e fa parte della strategia Europa 2020 ed è disponibile, nella sua prima versione, dal mese di luglio 2017. E’ uno strumento molto utile per chi voglia andare a lavorare all’estero.

Con ESCO possiamo individuare e classificare le abilità, le competenze, le qualifiche e le professioni rilevanti per il mercato del lavoro dell’UE e per l’istruzione e la formazione e mettere in relazione i diversi concetti.

Questo breve video può aiutare a comprenderne meglio il funzionamento:

… e già, è in inglese… per chi non è riuscito a comprenderlo, provo qui ad evidenziarne alcuni punti.

ESCO è utile per chi si occupa di occupazione e occupabilità (quindi anche gli youth workers…) perché:

  • ci fornisce un linguaggio condiviso e referenziato per l’occupazione e l’istruzione e formazione
  • aiuta la cooperazione attraverso i confini e le lingue

In Esco troviamo già mappate ed  analizzate 3,000 professioni, 13,500 abilità/competenze, 2,400 qualifiche e tutto questo è accessibile direttamente dall’interfaccia di ricerca nella lingua che si vuole (ce ne sono 26…).

Proviamo ad usarlo…

Ho provato ad usarlo, cercando youth worker in italiano, immaginando che possa servire a chi di noi voglia andare a lavorare all’estero, in un altro paese dell’Unione.

Risultato: nessuno.

Ho fatto allora la ricerca in inglese, sempre per youth worker. Questo il risultato:

Come previsto, la professione youth worker è mappata in inglese con una serie di etichette alternative ma anche di professioni più o meno contigue.

Posso fare una prima “traduzione” in italiano e vedere che effetto fa. Come? cambiando la lingua da inglese ad italiano sulla scheda della professione.

Ecco, la traduzione della professione forse è un po’ deludente… Assistente sociale per i giovani mi pare un po’ fuorviante rispetto anche alla traduzione stessa che la Commissione dà rispetto allo youth worker nei documenti ufficiali (animatore socioeducativo).

E quindi?

Ho avuto l’occasione di parlarne con Dimitrios Pikios, programme manager della Commissione Europea, che si occupa di ESCO.

La mia perplessità è stata accolta (“siamo ad una prima versione, dobbiamo partire con un vasto progetto di affinamento ed eventuale revisione dei termini”).  Anzi, mi ha sollecitato a facilitare il miglioramento delle traduzioni mandando alla Commissione eventuali rimandi e suggerimenti.

Credo che questo sia importante e necessario, e se non lo facciamo noi, youth workers, rischiamo che altri che non conoscono il nostro lavoro lo facciano per noi.

Una seconda funzione molto, molto interessante è quella delle competenze connesse alla professione. Stiamo sempre sullo Youth Worker, ora nella versione italiana. Ecco il risultato da screenshot:

L’elenco in realtà continua oltre la schermata. Se andiamo su una di queste voci ed entriamo, troviamo una descrizione breve della competenza, con la connessione con le professioni in cui questa competenza è presente:

Unico problema: è in inglese! chiaramente anche qui si evince come il portale sia ai suoi primi vagiti e ci sia un lungo lavoro ancora da fare.

Uno strumento molto utile

Per concludere: ESCO è uno strumento assolutamente interessante e utile per tutti coloro che fanno orientamento ed accompagnano i giovani nel riconoscimento delle proprie competenze acquisite ovunque e non solo nei contesti di istruzione e formazione perché:

  • aiuta a dare ordine nelle competenze;
  • suggerisce le parole a chi forse non riesce a dirle;
  • aiuta a fare ponte fra le nostre esperienze di apprendimento ed il mondo delle competenze in istruzione e lavoro.

E’ assolutamente migliorabile, e per farlo noi possiamo dare un contributo significativo andando a controllare le professioni che ci interessano, individuando le competenze/abilità e suggerendo modifiche agli estensori delle voci. Sono tutti contributi importanti per chi voglia, un domani, andare a lavorare all’estero.

Se avete commenti, lasciateli qui sotto e ne parliamo, ok?

Cosa fa lo Youth Work oggi?

Ho ripreso ultimamente il documento finale della Convenzione europea sullo Youth Work del 27-30 aprile del 2015 a Bruxelles, in cui più di 500 delegati da tutt’Europa si sono trovati per ragionare sullo youth work e sulle sfide attuali da affrontare.

Mi sono reso conto di alcune intuizioni interessanti che vale la pena divulgare.

Intanto hanno definito alcune dimensioni del ruolo ed impatto dello youth work:

  • favorire l’avanzare della democrazia, dei diritti umani, della cittadinanza, dei valori europei, della partecipazione, delle pari opportunità
  • promuovere la costruzione della pace, della tolleranza, dell’apprendimento interculturale; combattere la radicalizzazione, prevenire l’estremismo
  • affrontare e gestire le ambiguità sociali e personali ed il cambiamento
  • rafforzare le identità e appartenenze positive e l’autonomia
  • sviluppare le soft skills, le competenze e le abilità, coltivando capacità di navigazione e ampliando gli orizzonti personali
  • abilitare le transizioni verso una adultità “di successo”, particolarmente nell’istruzione e nella vita lavorativa
  • cementare l’inclusione sociale e la coesione
  • ingaggiare i giovani in pratiche collaborative, partnership di lavoro e cooperazione cross-settoriale.

Se qualcuno ha dei dubbi su quali possano essere gli “effetti” dello youth work, qui ne ha un elenco abbastanza impressionante.

Un secondo elemento di ispirazione mi è venuto invece rispetto alla considerazione che nel documento si fa su cosa lo youth work debba fare oggi: la risposta è “promuovere spazi” e “costruire ponti”.

Cose da ingegneri e architetti, dunque!

Per capire meglio, cito, traducendolo dall’inglese, il testo a pag. 5:

Il terreno comune dello Youth Work è duplice. In primo luogo, si occupa della creazione di spazi per i giovani. In secondo luogo, fornisce ponti nelle loro vite.
Entrambi gli elementi sono fondamentalmente finalizzati a sostenere lo sviluppo personale dei giovani e a rafforzare il loro coinvolgimento nei processi decisionali a livello locale, regionale, nazionale ed europeo. Si concentrano inoltre sulla promozione dello “spirito civico” e sulle responsabilità condivise tra i giovani attraverso l’uso di attività di apprendimento non formale divertenti e creative.
Oltre a creare spazi autonomi per la pratica del lavoro giovanile, lo Youth Work si occupa anche di permettere ai giovani di creare i propri spazi e di aprire spazi che mancano in altre aree – come scuole, formazione e mercato del lavoro. Analogamente, lo Youth Work svolge un ruolo di collegamento nel sostenere l’integrazione sociale dei giovani, in particolare i giovani a rischio di esclusione sociale. Lo Youth Work fornisce anche supporto e sostegno in altri contesti nella vita dei giovani.
C’è una pressione per specificare e misurare questi e altri risultati del lavoro giovanile. Occorre prestare attenzione ai risultati e incidere su dove possono essere misurati, ma il lavoro con i giovani dovrebbe continuare a concentrarsi sui processi e sui bisogni dei giovani,[…].. La Convenzione ha sottolineato che lo Youth Work contribuisce allo sviluppo di atteggiamenti e valori nei giovani così come di competenze e abilità più tangibili.

Mi pare molto importante rilanciare due questioni che qui emergono:

  • lo scopo dello Youth Work è quello di aprire spazi NON solo per i giovani ma anche in altri contesti per i giovani. Mi pare un insight molto importante per chi lavora con i giovani: non è sufficiente aprire spazi giovanili (e mantenerli, che oggi è difficile) ma che bisogna aprire spazi per i giovani in altri contesti di vita, superando la rigida suddivisione a cui siamo abituati tra youth work, studio e lavoro.
  • in un tempo in cui viene chiesto a tutto il Terzo Settore di misurare l’impatto sociale di ciò che si fa (spesso traducendolo in equivalenze economiche) la Convenzione rimanda che si debba farlo MA senza perdere di vista i processi, che sono l’elemento più prezioso del nostro lavoro.

Per chiudere questa breve riflessione: promuoviamo spazi per i giovani in tutti i loro ambiti di vita (= muoviamoci ed usciamo dai nostri più o meno confortevoli gusci, parliamo con le imprese, con le scuole, con le associazioni di anziani, ecc), costruiamo ponti verso l’adultità (= pensiamo a quali competenze si debba rafforzare per poter diventare adulti MA ANCHE pensiamo a progetti che aiutino questa transizione come nell’uscire di casa, nel trovare lavori più stabili, nel favorire anche l’autoimpiego…).

Per chi volesse leggere tutto il documento, lo trovate qui

 

 

Un gioco può cambiare un quartiere?

 

Come può un gioco cambiare un quartiere, una città, una società? 

Ieri ero ad Empoli per il primo incontro di ricerca sullo Youth Worker di GiovaniSì ed alcuni youth worker hanno iniziato a parlare di calcio sociale.

Un po’ straniti, abbiamo chiesto che cosa fosse questo calcio sociale e allora uno di loro, che abbiamo scoperto essere uno degli animatori ad Empoli di questo fenomeno, ha iniziato a raccontarcelo.

In cosa consiste? è fondamentalmente un modo nuovo di giocare a calcio, modificandone alcune regole che lo fanno diventare uno strumento educativo e di cambiamento.

Come ci raccontavano i protagonisti, l’obiettivo è creare un modello di società più giusto e coeso trasformando i campi di calcio in palestre di vita dove l’integrazione avviene quando le persone disagiate entrano a diretto contatto con persone normodotate. Chi va in campo ha un’età tra i 10 e 90 anni ed è indipendente dalle altre caratteristiche psicofisiche.

Una delle novità è che non ci sono arbitri, è richiesto che ci si autoregoli  sui falli (e cosa c’è di più straordinariamente trasgressivo oggi in Italia che assumersi la propria responsabilità!). Un’altra è che nessuno può segnare più di tre gol a partita: se ne segna un quarto viene annullato. E le squadre sono fatte in modo da renderle equilibrate, e se durante la partita si vede che una delle due è nettamente superiore si rimescolano nuovamente. Perché vincere 10 a 0 non è divertente né per chi vince né per chi perde!

Si riesce a capire come un impianto del genere possa modificare non solo il modo con cui si gioca ma anche il modo con cui si sta nella società. Per questo il Calcio Sociale diventa uno stile di vita basato su accoglienza, giustizia e solidarietà.

I giochi sono sistemi di regole, fondamentalmente non sono altro che sistemi di regole. E’ lo stare dentro le regole che ci permette di costruire ruoli, di pensare strategie e in definitiva di divertirci.

La società è come un grande gioco, è un sistema di regole condivise nel migliore dei casi, o di regole imposte, la maggior parte delle volte.  Cambiare le regole che ci impediscono di crescere e di trovare il nostro posto nel mondo credo che sia un imperativo. Per farlo possiamo fare la rivoluzione. Oppure metterci a giocare a calcio. Anzi, a Calciosociale!

Se volete approfondire, scoprendo i posti dove questo straordinario strumento di cambiamento è già in funzione e sta producendo effetti, andate sul sito di CalcioSociale.

Buona lettura!